Vai al contenuto

La forza comunicativa del “silenzio” e la voglia di non mollare assieme a Gianluca Aureliano

  • di

Di Edoardo Benini

Nel giorno della festa della Donna, la sezione di Venezia ha ospitato l’arbitro e VAR Pro Gianluca Aureliano di Bologna. Una gran bella esperienza, soprattutto per il folto gruppo di giovani associati, apparsi colpiti dalla concretezza e naturalezza dei concetti espressi con eleganza e semplicità. 

Partiamo… dalla fine: per spiegare meglio il senso della costanza e della resilienza, cui è stata improntata la vita sportiva di Aureliano, il collega bolognese ha ricordato una serie infinita di infortuni cui è andato incontro nella sua carriera, da calciatore prima, da arbitro poi. Rottura delle vertebre a 14 anni, strappi e sublussazioni della spalla a 15 anni, appena esordito in Eccellenza: di fronte a un declassamento in serie minori Gianluca decide di fare l’arbitro, sull’esempio paterno, nonostante il parere sfavorevole di quest’ultimo.

Aureliano ha incentrato la sua riflessione veneziana attorno al “silenzio”, parola che ha definito come il miglior strumento per una comunicazione efficace utile al prendere decisioni: «quando si fa silenzio non ci sono equivoci, le chiacchiere inutili o il problema di rispettare un ordine». Con esso riusciamo a nasconderci, nonostante siamo sul palcoscenico: «scomparire serve in quanto non è su di noi che sono puntati i riflettori, ma sulle partite che dirigiamo qualsiasi esse siano. Però per essere forti in questo bisogna capire come si comunica, chi è l’interlocutore, il luogo, il tempo e l’argomento della comunicazione». Attenzione però: «Non deve passare il messaggio che in campo dobbiamo stare zitti, bensì dobbiamo essere padroni di quello che diciamo perché, se lo siamo, sappiamo quando parlare e quando non farlo».

A questo punto però sorge una domanda: qual è la forma migliore di comunicazione? Secondo Aureliano, la risposta è dare qualcosa. La donazione è la miglior forma di comunicazione perché è importante comunicare, non solo saper comunicare. Una comunicazione fatta non tramite urla, fischi o agitazione gestuale, che evidenzia le nostre carenze, simbolo di un’assenza di controllo di noi stessi. Per essere signori (come in genere noi arbitri siamo chiamati in campo) e padroni di noi stessi dobbiamo attenerci a ciò. Per questo, calma, tempestività e puntualità sono parole chiave. Tutto per uno scopo ben preciso, far arrivare ai nostri collaboratori, ai giocatori, agli allenatori, ai dirigenti e al pubblico un messaggio chiaro: siamo persone degne di fiducia. Quello che arriva dall’esterno ci deve interessare poco, poiché bisogna considerare le dinamiche, studiare e soprattutto essere consapevoli della nostra decisione. Questo perché, nel tempo, si è perso lo scopo che ha avuto all’origine la figura del direttore di gara: mi fido dell’arbitro in quanto tale, indipendentemente dai suoi difetti. A ciò sono seguite una serie di domande con un intento provocatorio: qual è la vostra preparazione fisica e mentale? Sareste capaci di reggere l’insuccesso e di riconoscere che la vita non inizia e finisce con quel risultato? A quanto ammonta il vostro impegno affinché vada per il verso giusto? Avete un rapporto di apertura e comprensione con gli osservatori e i dirigenti? 

«Sapete oggi qual è il mio obiettivo?», ha concluso Gianluca Aureliano. «Farvi comprendere la comunicazione nella misura in cui sia funzionale a ricercare fiducia e avverare un sogno». Per chi entra in sezione, la Serie A non deve essere intesa come qualcosa di irraggiungibile, ma come qualcosa di quasi impossibile. Aureliano ha voluto sottolineare l’importanza della sezione nel coltivare questo sogno: «quando entriamo in sezione, ci viene insegnato a non abbandonare mai chi siamo. Forse è uno degli ultimi avamposti dove siamo invitati a pensare con la nostra testa e non con quella di altri. Non dovete pensare che sia giusto in quanto lo dico io, ma in quanto voi lo ritenete tale, anche in campo». Con la stessa passione degli inizi, sino alla fine.